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UNA DIVA "IN PRESTITO"

Voce tra le più singolari ed affascinanti del panorama musicale italiano, Rossana Casale è passata dai fasti sanremesi al più raffinato repertorio jazz e d'autore, per approdare con successo al musical teatrale; con dolce determinazione, professionismo di ferro e una parola d'ordine, "umiltà".

Rossana CasaleNon v’è dubbio che Rossana Casale, attualmente impegnata nella nuova edizione de La piccola bottega degli orrori, uno dei primi grandi successi della Compagnia della Rancia, sia una delle personalità più insolite e stimolanti dello spettacolo italiano. Preziosa e raffinata vocalist dallo swing jazz, così rara nel nostro paese, è assurta ai grandi successi della musica «pop» senza farsene travolgere, decidendo poi di seguire una strada più meditata e raccolta, che le potesse permettere di maturare un’interiorità e una consapevolezza artistica maggiori, scegliendo la via del teatro e di percorsi musicali meno consueti e commerciali.
Ma lasciamo che sia lei a raccontarsi, per i lettori della nostra rivista. La prima cosa che colpisce in lei è la pacata dolcezza della voce e l’estrema gentilezza nel modo di porsi, indizio di una raggiunta, adulta serenità. Una donna, insomma, che al momento ha i conti in pareggio con la vita.
Partiamo dall’inizio, Rossana (ha rifiutato categoricamente il «lei» di rito... )
«Il mio inizio è come corista. Per dieci anni ho fatto la corista per vari artisti della musica italiana, da Mina a Cocciante. A un certo punto della mia vita ho incontrato Alberto Fortis, che è stato il mio compagno per un periodo importante, il quale mi ha spronato a cercare una strada mia alla quale io, per la verità, all’inizio non credevo, perché mi piaceva moltissimo fare la corista e non mi vedevo assolutamente come solista. I provini che io feci con i pezzi ai Alberto arrivarono ai suoi stessi discografici della Phonogram. Lui scriveva alcune musiche per me, o, a volte, erano pezzi che non metteva in repertorio. Su alcune io scrivevo il testo. Ci piaceva giocare, eravamo entrambi poco più che ventenni. Lui suonava il pianoforte tutto il giorno e io, per non annoiarmi, scrivevo un testo, su quelle musiche che ripeteva in continuazione, un po’ in italiano, un po’ in inglese. A volte erano messaggi d’amore per lui. Tra questi c’era “Didin”, che piacque molto alla Phonogram che mi propose di farne un singolo. Mi accorsi che questa canzone aveva avuto un grande successo quando mi hanno portato al concorso televisivo musicale a squadre “Azzurro”; quando uscii sul palcoscenico venne giù il teatro e io mi voltai per vedere chi era arrivato! Mi sono resa conto solo allora che il mio pezzo aveva avuto successo. Cominciai una promozione che durò un anno, poi arrivarono altre canzoni, tra cui “Brividi” che è un po’ il mio manifesto, quella per cui la gente mi riconosce, “Destino” e altre. A questo punto nella mia carriera erano entrate due autori fondamentali come Guido Morra e Maurizio Fabrizio. Il successo, intanto, si stava facendo sempre più potente e io ho avuto una specie di crisi. In fondo io sono una persona legata alla vita semplice, alla quotidianità. Sto male se perdo i miei amici, i miei spazi, le mie piccole cose, il contatto con la gente. Ero rapita tra commercialisti, avvocati, discografici, produttori. Ho avuto una vera e propria crisi di rigetto e ho mollato tutto, decidendo di dedicarmi al jazz, considerandolo però un hobby. Era la musica dei miei genitori quand’ero piccola...».
Un genere commercialmente difficile in Italia, sicuramente non seguito da un pubblico di massa...
«Proprio per quello mi sono rifugiata lì. Trovarmi di nuovo a cantare in locali “ad hoc”, per appassionati, come quando non ero conosciuta. Volevo ritrovare me stessa. Io andavo come “ospite” infatti ai concerti, non erano concerti miei. Piano piano la cosa ha cominciato a funzionare e a piacere molto e mi sono ritrovata a propormi di ricominciare con la musica tenendomi l’hobby per il jazz, che mi dava ossigeno, entrando però in conflitto con i miei produttori, perché andavo a suonare per un milione e mezzo quando i miei concerti venivano venduti a diciotto. Per cui, litigate a non finire. Una fase molto difficile. Lentamente sono riuscita però a a fare incrociare queste due strade e lo ho portate ad essere una sola, molto più difficile. Due anni fa, ad esempio, ho inciso un disco dedicato alle canzoni di Jacques Brel, fatte però in italiano e adattate in chiave jazz...».
Una svolta più «autoriale»; insomma.
«Diciamo la voglia di ritrovare la profondità, i sentimenti e le parole. Un po’ quello che il mercato di oggi ti vieta, in tutti i campi. Ovviamente la società chiede questo e forse andrà bene così...».
Non sono convinto che la società chieda questo. È una vecchia questione, ormai. Non è forse «questo» che viene imposto alla società?
«È la domanda che mi faccio anch’io. Ti faccio un esempio: non ti dico quanto mi ha fatto contenta quest’anno il successo di un film come “La stanza del figlio” di Nanni Moretti mi ha fatto pensare “ma allora si può, allora è ancora possibile”. Un film meraviglioso. Ho chiamato Moretti per dirglielo. Questo ti dà la forza per non mollare, andare avanti, crederci sempre. Lo scorso dicembre ad esempio ho fatto uscire un disco intitolato “Strani frutti” dedicato alle “maledette” del Novecento, che va da Edith Piaf a Mia Martini, da Billie Holiday a Judy Garland, da Marilyn Monroe a Janis Joplin, e ho fatto un tour con questo repertorio. Fortunatamente ho una vita mia molto soddisfacente. Non è una vita di classifiche, ovviamente, è una vita accarezzata e coccolata dai critici e a me basta questo nella musica. E poi è arrivato il teatro...».
Ecco, ci siamo. Come si è inserito il teatro nella tua vita?
«Subito dopo il disco “Jazz in me” nel 1994. Ho conosciuto, nell’ambito di uno spettacolo di beneficenza Raffaele Paganini. Lui stava preparando “Un americano a Parigi”, il balletto per la precisione. Visto che lo spettacolo era tutto su musiche di Gershwin e io nel disco cantavo un brano di questo autore che adoro, lui mi ha proposto di cantare una canzone all’interno di questo balletto e io ho risposto “Perché no?”. Il resto l’ha fatto l’impresario, che ha capito che poteva inventarsi uno spettacolo nuovo, fatto non solo di danza, ma anche di canzoni. Da lì all’idea di inserire anche il recitato il passo è stato breve. È cominciato allora il nostro terrore, perché la recitazione non era proprio il nostro campo, ma alla fine “Un americano a Parigi” è nato e ha avuto un grandissimo successo. È venuto a vederlo Saverio Marconi e abbiamo aspettato che il tempo maturasse per fare un lavoro insieme. Allora mi propose “Sette spose per sette fratelli” che però io non sentivo molto musicalmente e in più, nel frattempo, ero rimasta incinta. L’ha fatto egregiamente, in maniera splendida, Tosca. Due anni fa Saverio mi ha richiamato e mi ha detto: “Senti, lo so che non è Jacques Brel, ma ti andrebbe di interpretare Marilyn in “A qualcuno piace caldo”?».
Curioso lapsus. Non Zucchero, ma Marilyn?
«Lui mi disse proprio così, perché secondo Saverio la mia era l’unica voce in Italia che poteva far ricordare “Lei”. La voce, eh, parlo della voce. Io gli risposi “Scusa, hai bevuto?”. Io ero sovrappeso di venti chili dopo il parto e non mi sentivo assolutamente in forma. “Se vuoi posso venire a farti ridere”, proseguii. “Fidati di me” mi rispose Saverio “ma sappi anche che sono l’unico in questo momento che ci crede” a parte Gianmarco Tognazzi ed Alessandro Gassman che avevano accolto l’idea con entusiasmo ma volevano però vedermi alla prova».
Devo dire che è stata un bella sfida in effetti, Rossana. Tutti noi avevamo dei dubbi. Non perché tu non fossi brava, ma perché l’immaginario cinematografico, l’icona di Marilyn, erano talmente forti che la tua immagine «discreta» appariva distante dalla fisicità burrosa e tutta curve di questa bomba sexy. Beh, è stata davvero una sorpresa il risultato...
«Anche per me! Ho sostenuto due provini per quella parte. Non avevo mai fatto un provino in vita mia, neanche per la musica. Sono stati davvero “tosti”. Dovevo convincere loro ma anche me stessa, e dovevo vincere. Se c’è qualcuno che ha vinto è stato però Saverio, che ci ha creduto da sempre. Ha provinato tanta gente ma più seguendo i consigli degli altri che quello che pensava lui. Per me è stato fantastico. Le critiche sono state bellissime e mi sono ritrovata davanti ad un mestiere meraviglioso. La recitazione, in “A qualcuno piace caldo” non si riduceva a tre battute come in “Un americano a Parigi”, era davvero impegnativa. Saverio mi ha detto “Promettimi che faremo un altro musical insieme”, “Ma promettimelo tu” gli ho risposto... ».
E cosi è arrivata La piccola bottega degli orrori...
«Con un personaggio completamente diverso da quello di Zucchero anche se la semplicità e il candore potrebbero in qualche modo ricordarla. Da una prima lettura del copione mi sono resa conto di quanto lavoro ancora debba fare. Il mestiere del musical è un mestiere a parte, dove, se non stai bene con i piedi poggiati per terra ti potresti illudere da un momento all’altro di essere diventata come cantante una grande attrice o una grande ballerina. Invece rimani sempre una buona cantante con tanta esperienza, che deve però ricominciare ad “imparare” tutte le volte».
Come risolvi la parte «danza»?
«In “Un americano a Parigi” lo scambio meraviglioso era che io insegnavo a Raffaele Paganini a cantare e lui mi insegnava a ballare. Io non sapevo coordinare, letteralmente, il piede destro e il braccio sinistro. Camminavo come i soldatini. Mi sono resa conto a quel punto che se io avessi cercato di raggiungere il livello anche di una prima lezione di danza di un vero ballerino, avrei comunque fatto pena. Ho cominciato così a giocare con il mio corpo come facevo quando andavo in discoteca, a divertirmi di più, ad essere più libera. Anche Saverio e Sciortino, il coreografo, in “A qualcuno piace caldo” non mi hanno fatto mai fare niente di più di quello che fossi in grado di fare e così sarà per sempre. Anche se io mi mettessi a studiare danza adesso, a quarantadue anni - dichiara sportivamente -  non raggiungerei nemmeno il calzino di un ballerino di professione. Tutto sta nell’avere una buona dose di auto-ironia che a me non manca, dal momento che mia madre è veneziana, e lavorare molto sodo. Resterò sempre comunque una cantante che, guarda che carina, ha imparato quattro passi e se non cade è un miracolo. Secondo me bisogna rendersi conto di questo e va detto: nessuno di noi, nessuno, ha partecipato ad una scuola che ci insegnasse a fare tutto bene, perché non esiste in Italia; forse adesso ne stanno nascendo. È opportuno quindi riconoscere i propri limiti e che anche la compagnia con la quale lavori senta la tua umiltà; è importante. Il pubblico che viene a vedere Rossana Casale viene a sentirmi cantare e non per vedermi ballare; se lo faccio, è una cosa in più».
Cosa ti ha insegnato lavorare nel musical?
«Il rigore e la severità, che sono importanti anche nella vita. Io prima andavo a cercare emozioni forti per raccontarle attraverso la musica. Il fatto di lavorare in teatro mi ha dato un ordine, una disciplina».
Vuoi parlarmi del tuo personaggio, Audrey, ne La piccola bottega degli orrori?
«Audrey si sente in prestito sulla terra. Non ha un punto di arrivo; qualsiasi cosa è già tanto per lei. Evidentemente è una persona con notevoli problemi di amor proprio, che cerca un amore impossibile con un dentista che la maltratta dal mattino alla sera, le dice che è un’incapace, che non è niente. Piano piano, durante il musical, comincia a capire quale è la differenza tra essere scelti e scegliere. È una cosa molto bella da sentire dentro mentre reciti questo ruolo. Audrey è buffa senza sapere di esserlo, non c’è bisogno di caricare niente nell’interpretarla; la devi amare dal primo momento che entra in scena, devi essere dalla sua parte. Mi sono innamorata subito di questo personaggio perché in qualche modo ho ritrovato in Audrey degli aspetti miei di quando ero più giovane, prima di cercare un’affermazione nella musica  e prima di avere un figlio, che ti porta a difenderti e a difenderlo come una leonessa con i suoi cuccioli. Io ero una persona molto insicura nella mia adolescenza, e mi lasciavo trasportare dal vento; mi sentivo sempre sbagliata, inadeguata; avevano sempre ragione gli altri. Quand'ero ragazzina tutte le mie amiche, a scuola, mettevano il loden e io mi sentivo diversissima da loro perché non lo avevo. Sono andata da mio padre e glielo ho chiesto, volevo essere uguale alle altre. Lui, fotografo italo-americano un po’artistoide, si sentì rabbrividire a immaginarmi con quel coso verde addosso, e me lo prese... arancione! Questo ricordo di me che ho ancora dentro, perché un po’ quel lato del carattere ti rimane sempre addosso e ci combatti tutta la vita perché non prenda il sopravvento, lo rivedo in Audrey e mi fa molta tenerezza».
Quale è la prima cosa che ti spinge a scegliere un musical piuttosto che un altro?
«La musica. Infatti “La piccola bottega” ho deciso di farla proprio perché la musica è bellissima e mi intrigava e stimolava molto l’idea di cantare qualcosa che non fosse jazz. Ho il piacere di lavorare di nuovo con Carlo Reali, con il quale ero ho già in “A qualcuno piace caldo”; un grandissimo attore che ho “ammorbato” piombando sempre nel suo camerino per chiedere consigli e rassicurazioni “Perché ho sbagliato quel tempo comico? E perché questo? E quest’altro?”. Pover’uomo, una gran pazienza! E poi Manuel Frattini, persona alla quale voglio molto bene, un artista in crescita che merita tantissimo, un ballerino meraviglioso e una grande voce. Una compagnia piccola e affiatata, nella quale si è legati da affetto, è la condizione di lavoro ideale».
Nel momento in cui questo articolo uscirà nelle edicole, Rossana sarà alla vigilia del debutto triestino della Piccola bottega. Non ci resta che farle (come al resto della compagnia) i nostri più calorosi in bocca a lupo, a lei, ragazza «in prestito» degli anni passati che ritroverà un po’ di se stessa com’era nell’indifesa Audrey. Ma con le certezze, la maturità e la serenità di oggi. Però sognando sulla scena, perché no, ancora una volta, un amore che faccia venire i «brividi»...

Nicola Salmoiraghi

 

 

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