PAROLA
D'ORDINE: ENERGIA
Giampiero Ingrassia, figlio d'arte, ha dimostrato di possedere un talento in
proprio e l'ha ampiamente dimostrato sul palcoscenico "musical" de "La piccola
bottega degli orrori", di "Grease", di "Salvatore Giuliano", per arrivare al
prossimo "Full Monty", senza dimenticare però la sua dimensione di attore
completo a trecentosessanta gradi.
Non
sempre la stirpe dei figli d’arte,
soprattutto in Italia dove germina più che
altrove, produce buoni frutti; anzi, è vero
il contrario. Qualche eccezione c’è, ci
mancherebbe. E una di queste è senz’altro
Giampiero Ingrassia, figlio
dell’indimenticabile
Ciccio, che, sia in coppia con Franco
Franchi, che da solo è stato uno degli attori
comici e brillanti più popolari del nostro
cinema e del nostro teatro cosiddetto «leggero»
(provate un po’ a farlo... ). Senza
dimenticare che si è dimostrato anche
eccellente attore drammatico, tanto per fare
due esempi, nel felliniano Amarcord, o,
proprio insieme a Franco Franchi, in Kaos dei
fratelli Taviani.Giampiero, negli ultimi
anni, dopo il grandissimo successo ottenuto su
tutti i palcoscenici italiani in Grease, si è
definitivamente imposto, anche se ci pare di
capire che non ami molto le etichette, come
uno dei più validi protagonisti della «musical
renaissance» che il nostro paese sta vivendo.
Dopo Grease, recentissimo interprete di
Salvatore Giuliano e futuro primo nome «in
ditta», insieme a Rodolfo Laganà, della
versione italiana di Full Monty, lasciamo che
sia lui a raccontarsi. Come in ogni buona
storia che si rispetti, dall’inizio. Il fatto di essere figlio
di Ciccio Ingrassia, ha in qualche modo
influenzato la tua scelta professionale? «Indubbiamente è una
questione genetica. Sin da piccolo ho
respirato aria di cinema e di palcoscenico.
Sinceramente, però, sino ai diciotto anni non
pensavo nemmeno lontanamente di diventare un
attore, mi sono addirittura iscritto alla
facoltà di legge. La mia battuta consueta era
“un attore in casa basta e avanza”, ma in
realtà mentivo a me stesso inconsciamente. A
un certo punto compresi che all’università
stavo buttando via il mio tempo e decisi di
seguire la mia vera passione, quella di
recitare». Papà approvò? «Come tutti i genitori
che vogliono che i propri figli facciano
quello che loro non hanno potuto,
voleva che mi laureassi. Ma in verità non mi
ha mai ostacolato; mi ha avvertito che questo
era un mestiere molto difficile, per il quale
occorre molto equilibrio». Restando nel campo che ci
riguarda anche lui ebbe la sua bella,
importante esperienza di commedia musicale... «Come no! Che mi
riguarda direttamente tra l’altro! Io sono
nato tra il primo e il secondo tempo di
“Rinaldo in campo” nel 1961. E il mio
primo applauso lo ottenni quella volta, dal
momento che al termine dello spettacolo, quel
18 novembre, Domenico Modugno dalla ribalta
disse “Facciamo tutti un applauso a Ciccio
Ingrassia, che è diventato papà da
un’ora”».Quale è stato il tuo
inizio professionale? «Mi sono iscritto al
Laboratorio di Proietti nel 1983. La mia
carriera cominciò piano piano, passo dopo
passo. Ho fatto molta prosa e televisione
prima di arrivare al musical che è la mia
passione cinematografica fin da ragazzino,
grazie a “Jesus Christ Superstar” e a “Tommy”,
la “new wawe” del musical su grande
schermo, dopo la stagione per così dire
“classica”. “Jesus Christ” in
particolare mi folgorò. Non parliamo poi di
“Rocky Horror Picture Show”. Ero da
Ricordi a Roma e vidi la copertina del
long-playng con colonna sonora del film. In
copertina c’era l’immagine di Tim Curry in
reggicalze. Non sapevo nemmeno di cosa si
trattasse, pensavo fosse musica “punk”. Lo
comprai e sono letteralmente impazzito! Il
film in Italia arrivò nel 1979, quattro anni
dopo la sua uscita negli Stati Uniti. Io, che
conoscevo ormai il disco a memoria, coinvolsi
alcuni miei amici per venire a vederlo,
facendo loro credere che si trattasse di un
film dell’orrore. Quando si resero conto che
era un film musicale, in lingua originale con
i sottotitoli, per poco non sono scampato ad
un linciaggio!». Quindi, in un certo
senso, quando ormai eri attore, è scattato in
te il desiderio della specializzazione? «No, questo no. Io mi
ritengo comunque attore a trecentossesanta
gradi, quindi voglio tenermi aperti tutti i
campi. Ma mia madre è musicista e io dai miei
genitori ho veramente ereditato le due mie
grandi passioni e il musical mi dà modo di
esprimerle entrambe. Recito e canto. Ballo...
un po’ meno, perché non sono un ballerino e
l’ho sempre dichiarato per onestà nei
confronto dei veri professionisti di questo
settore. Mi so muovere, ma non ho mai preso
una lezione di danza. Ho sempre ringraziato
Franco Miseria per avermi fatto ballare in “Grease”,
ma ho sudato le proverbiali sette camicie. Il
risultato non è stato poi così malvagio. La
gente mi diceva “Ma che bravo, non sapevamo
che lei sapesse ballare”. In realtà io non
“sapevo” ballare. Ma questo fa parte del
mestiere d’attore; imparare in un “tot”
di tempo ciò che serve al personaggio che
devi interpretare. Se ti chiedono di fare il
cow-boy non è detto che tu sappia andare a
cavallo. Impari quanto basta a rendere
credibile il personaggio». Il primo musical arrivò
per te... «Nel 1989. Con “La
piccola bottega degli orrori”. In quel
periodo io stavo girando per la televisione
“Classe di ferro”, un telefilm di notevole
successo. Un mio collega mi disse che Saverio
Marconi stava cercando il protagonista per
“La piccola bottega degli orrori”. Io
all’epoca cantavo, anche. Ma ero comunque un
po’ scettico; alla fine decisi di provare.
Telefonai, andai a casa di Michele Renzullo,
che era stato il protagonista della prima
stagione della “Piccola bottega”, avemmo
un lungo colloquio e fui scelto. Ricordo che
debuttammo al Teatro San Babila il 4 ottobre
del 1989 e due giorni dopo andava in onda la
prima puntata di “Classe di ferro”; fu un
bel periodo. Camminavo per strada e venivo
inseguito dalle “fans” televisive, che poi
venivano in teatro vedermi. Fu la prima grande
“botta” di popolarità e la sensazione era
molto piacevole e poi “La piccola bottega”
era proprio uno spettacolo delizioso. Facemmo
oltre trecento repliche». Come è stato l’impatto
con questo genere teatrale? «Molto piacevole; mi
sono subito sentito a mio agio. Avevo dei
compagni di strada eccezionali come Edy
Angelillo, Cesare Bocci, Guglielmo Ferraiola.
Non ho
avuto difficoltà. Io canto da quando ero
piccolo e non ho avuto nessun trauma. Mi ero
preparato tutta l’estate, preparando botta e
risposta con la mia fidanzata di allora. Dopo
sei mesi di tournée riprendemmo lo spettacolo
nel 1993. C’era sempre Edy, Alessandro
Fontana al posto di Cesare Bocci e Carlo
Reali, che è anche tra i protagonisti
dell’ultima ripresa». Dopo di che, come è
proseguito il tuo cammino nel musical? «Durante un viaggio a
Londra nel 1990 mi capitò di vedere un
musical al di fuori dei grandi circuiti che si
intitolava “Forbidden Planet”; una vera
delizia che era ricavata dalla “Tempesta”
di Shakespeare e dal film del 1952 “Il
pianeta proibito”. Tornai a Roma, ne parlai
con alcuni dei miei amici produttori che ne
acquistarono i diritti. “Il pianeta
proibito” in Italia andò così in scena nel
1995. In scena io, Chiara Noschese e Scialpi.
Uno spettacolo davvero carino, con la
“band” dal vivo. Il problema era che il
musical non era ancora esploso “alla
grande” nonostante il “pioniere” Saverio
Marconi avesse aperto la strada già da alcuni
anni... ». Tenderei a non
dimenticare Garinei e Giovannini... «Certo. Grandissimi e
intoccabili. Ma quella è la grande tradizione
della commedia musicale all’italiana, che è
un’altra cosa. Per il musical, senza nulla
togliere a nessuno, io parlerei di epoca pre e
dopo “Grease”, che è stato il grande
spartiacque. Dopo quello spettacolo c’è
stata la grande esplosione, anche in negativo,
dal momento che tutti adesso pensano che si
possa far musical su qualsiasi trama e
qualsiasi argomento. Ma diamo
a Saverio Marconi e alla Compagnia
della Rancia quello che spetta loro. Sono la
prima compagnia di musical italiana, come
livello. C’è poi Massimo Romeo Piparo,
certamente importante, e vari poli. Tornando
al “Pianeta proibito”, non ebbe purtroppo
molto successo». Si arriva così a
Grease... «Il grande lancio e
un’esperienza umana straordinaria. Una
piccola curiosità che Saverio non ama che io
ricordi, ma mi perdonerà! Quando feci il
provino per “La piccola bottega”, allora
gli davo del lei, chiesi “Signor Marconi,
che musical ha in mente di allestire
prossimamente?”e lui mi fece dei titoli tra
cui “Chorus Line”. Gli dissi “Perché
non fa ‘Grease’?” “Ma, vedremo..”.
Sappiamo come è andata!». L’icona cinematografica
così forte di John Travolta nel film ti ha in
qualche modo condizionato nell’interpretare
Danny Zuko? «No. Io il film l’ho
visto tantissime volte, adorandolo, quando uscì
e io avevo diciassette anni. Quando ho saputo
che avrei dovuto interpretare il musical a
teatro, deliberatamente non ho più voluto
rivederlo proprio per non lasciarmi
influenzare. L’ho rivisto dopo e mi sono
accorto che lo stereotipo del diciottenne
bullo con il giubbotto è quello, con quella
camminata, quegli atteggiamenti. “Grease”
per me è stato un evento. Anche lavorare con
Lorella Cuccarini, che fa parte della mia
straordinaria galleria di partners femminili,
tutte una più brava dell’altra; Edy
Angelillo, Chiara Noschese, Olivia Cinquemani,
con la quale ho lavorato in “Jesus Christ
Superstar” con la regia di Massimo Romeo
Piparo, realizzando il sogno di essere sul
palcoscenico del musical che mi ha fatto amare
questo genere, come ricordavo prima, per
arrivare a Tosca in “Salvatore Giuliano”.
Tornando un attimo a “Jesus Christ”, dove
io in quinta non potevo credere di essere
accanto a Carl Anderson, il Giuda del film che
avevo adorato da ragazzino, per tre sere ho
interpretato il “cameo” di Erode. È stata
un esperienza splendida e divertentissima, a
parte i venti centimetri di tacco su cui
dovevo caracollare sul palcoscenico! ». Parliamo
dell’esperienza di Salvatore Giuliano,
musicale sì, ma giocata su di un registro
decisamente più drammatico. «Ho conosciuto Dino
Scuderi, autore delle musiche, quattro anni
fa, quando interpretavo Erode nel “Jesus
Christ” con la regia di Piparo. Poi ci siamo
persi di vista. Mi ha chiamato un giorno
dicendomi di aver scritto un musical sul
bandito Giuliano e di aver pensato a me per il
ruolo del protagonista, considerata la mia
“sicilianità” di origine. Dopo aver
sentito le musiche, davvero splendide, ho
deciso di farlo a tutti i costi. Una scommessa
difficile, ma una scommessa vinta: sessanta
persone in scena, l’orchestra dal vivo e un
argomento decisamente severo, controverso e
scomodo. Un personaggio che suscita ancora
dibattiti sia da un punto di vista politico
che storico. Dopo aver finito le repliche di
Palermo, al Teatro di Verdura, spero di
riuscire a ritagliarmi uno spazio tra i miei
impegni di “Full Monty”, per poterlo
riprendere, se riesco, nella stagione
2002/2003 o appena posso. Non può finire così.
È uno spettacolo che merita di essere visto». E siamo arrivati così a
Full Monty, uno dei titoli più attesi della
prossima stagione in musical... «Debutteremo al Teatro
Brancaccio il 4 dicembre. Un’occasione che
non potevo perdere, e per la quale ho
rifiutato altre proposte. Il titolo è
fortissimo, il regista, Gigi Proietti,
fantastico, il mio compagno di lavoro, Rodolfo
Laganà, bravissimo, oltre che un caro amico,
oltre ad altri validissimi interpreti ormai
tutti scelti». È vero, come si dice,
che il soggetto subirà un’italianizzazione? «Noi ci chiameremo
sempre Jerry, Dave, eccetera, eccettera. Solo
che saremo una comunità di italo-americani,
anche se la vicenda resta ambientata a Buffalo,
negli States, mentre il film si svolgeva in Inghilterra. Nella versione americana del
musical i cognomi finivano tutti più o meno
in “osky”, quindi erano di origine
russo-polacca o giù di lì. Nel musical io
sosterrò il ruolo che nel film era di Robert
Carlyle, il separato con figlio e nuova
compagna. Il musical teatrale segue più o
meno fedelmente le trama del film, a parte
l’aggiunta di un personaggio, quello di una
vecchia insegnante di piano, che poi li aiuta
a montare il numero di spogliarello». Che ti causerà qualche
imbarazzo? «Indubbiamente sì! Più
si avvicina il debutto e più comincio a dirmi
“Mah!”. Non è tanto lo spogliarello in
teatro a preoccuparmi, ma sono le prove che mi
terrorizzano! Noi abbiamo poi un coreografo
donna, Rossella Lo Biundo. Te lo immagini
“Fermo un attimo, puoi rifare ...”.
Indubbiamente ci vuole una buona dose di
incoscienza. L’occasione era però troppo
allettante. Lo spettacolo ha poi, oltre i
sorrisi, un retrogusto agro molto forte. Il
bilancio fallimentare nel rapporto uomo-donna,
la crisi del lavoro, l’incertezza del
futuro. Un panorama, che quando si chiude il
sipario, lascia un po’ d’amaro in bocca.
Dopo il debutto romano per la prima stagione
andremo a Napoli, Torino, Bologna e Trieste.
La seconda stagione sicuramente ci sarà
Milano, probabilmente al Teatro Nuovo, e poi
le altre tappe da definire». Come ti piacerebbe che
proseguisse la tua vita professionale? «Questa stagione ho due
fiction in uscita per Mediaset: una si
intitola “La banda”, film tv con la regia
di Claudio Fragasso e un’altra “Il
portiere non c’è mai” con la regia di
Carlo Corbucci e Pipolo, dodici puntate. Nel
campo del musical mi piacerebbe moltissimo
fare “Jekyll e Hyde” che so ha in progetto
Piparo in una delle sue prossime stagioni al
Teatro Nazionale di Milano. Chissà chi lo farà,
forse Massimo Ranieri. Va be’, intanto io
lancio il sasso...». Vorrei chiudere
l’intervista tornando alla domanda iniziale.
Qual è l’eredità umana più importante che
ti ha lasciato tuo padre e che ti ha aiutato
nel lavoro? «L’umiltà e la
perseveranza. Non dire mai “non ce la
faccio”, anche quando pensi di non farcela o
anche quando arrivi secondo. Questo è un
mestiere fatto di energia. E, lo ripeto, di
equilibrio».
Nicola Salmoiraghi
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